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Comunità Pastorale S.Paolo VI

Viboldone

Come si racconta la storia della comunità monastica?
Festa di san Benedetto 80.mo della fondazione
Domenica – 11 luglio 2021

 

1. Come si raccontano 80 anni di vita monastica?

 

Si può raccontare la storia con le statistiche: quante siamo, quante eravamo, quante sono entrate, quante persone sono state ospiti.

 

Si può raccontare la storia con quello che si è prodotto: le pubblicazioni, i corsi, i convegni, gli interventi sulla chiesa abbaziale e sul monastero.

 

Si può raccontare la storia interpretando il ruolo svolto da questo monastero nella storia monastica recente, le intuizioni di Madre Margherita, le strade aperte, l’interazione con altre comunità, l’evoluzione propiziata, le divergenze sofferte.

 

Si può raccontare la storia descrivendo le relazioni con il territorio, il borgo e la sua evoluzione, la situazione attuale e le prospettive future.

Si può raccontare in tanti modi la storia di 80 anni di monastero.

 

Ma la celebrazione della festa di san Benedetto suggerisce di percorrere una via più modesta, più quotidiana, forse anche più indecifrabile e azzardata, perché scritta nella storia insondabile delle persone, che solo lo Spirito di Dio può conoscere. Si può raccontare dell’opera di Dio nelle persone che hanno accolto le parole della Sapienza, hanno custodito i suoi precetti, hanno teso l’orecchio alla sapienza e inclinato il cuore alla prudenza, hanno invocato l’intelligenza (cfr Prv 2,1 ss).

 

 

 

 

 

2. Dalla meschinità a comportarsi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto (Ef 4,1)

La vicenda dei discepoli raccontata nel Vangelo offre uno spettacolo piuttosto desolante: dopo aver compiuto la scelta di seguire Gesù, di condividere con lui momenti drammatici e momenti trionfali, dopo aver ascoltato tutte le sue parole e raccolto le sue confidenze, dopo aver visto i segni da lui compiuti i discepoli, proprio in quella sera, proprio durante quella cena si accendono per una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande.

 

 

Mi immagino che il primo a parlare fosse Pietro: “Sono io il più grande, ho sempre parlato io a nome di tutti, ho riconosciuto la verità di Gesù e la sua missione. Il ruolo che ho indica chiaramente che sono il più grande”. E come è avvenuto che questo Pietro, essendo il primo, si sia fatto servo di tutti, riconoscendo nel pianto la sua fragilità e miseria e il suo rinnegamento? Ebbene questo Pietro ha accolto le parole di Gesù ed essendo il primo si è fatto come colui che serve. Così entra nella storia un modo cristiano di vivere il ruolo e l’incarico ricevuto: il servire.

 

Mi immagino che Giovanni abbia avanzato le sue pretese: “Sono io il più grande, perché sono il discepolo amato, quello che Gesù ha tenuto più vicino. L’affetto, il legame di amicizia mi rende il più grande”. E come è avvenuto che questo Giovanni, essendo il discepolo amato, si sia messo nell’ombra di Pietro, e abbia indicato la via perché tutti i discepoli siano chiamati amici e tutti si riconoscano nel discepolo amato? Ebbene questo discepolo ha visto la gloria di Dio e ha praticato l’affetto non come gelosia possessiva, ma come servizio a edificare la comunità che pratica il precetto dell’amore reciproco. Così entra nella storia un modo cristiano di vivere gli affetti: lo stile della comunione fraterna.

 

Mi immagino che Andrea abbia preteso il suo posto: “Sono io il più grande, perché sono il primo che ha seguito Gesù, il primo chiamato. L’anzianità di servizio mi assicura questo privilegio”. E come è avvenuto che Andrea, essendo il primo, ceda il passo e la parola a Pietro e Giovanni che lui stesso ha guidato a Gesù? Questo discepolo ha inclinato il cuore alla prudenza. Così entra nella storia un modo cristiano di vivere le differenze di età e i rapporti intergenerazionali: l’età e l’esperienza non sono un titolo di privilegio, ma la responsabilità di essere saggi, umili, e disponibili a farsi da parte.

 

Mi immagino che Matteo abbia preteso il primo posto: “Sono io il più grande, perché la mia chiamata è stata la più clamorosa: da pubblicano a discepolo, e tutta la città ne ha parlato e tutti i miei colleghi pubblicano sono venuti a festeggiare in casa mia!”.

E come è avvenuto che questo protagonista della conversione clamorosa sia quello che ha scritto del bambino posto a modello della grandezza nel regno dei cieli e della correzione fraterna come regola della vita della comunità e della condanna del servo spietato che essendo perdonato non ha saputo perdonare? Ha compreso il timore del Signore e ha trovato la conoscenza di Dio. E così entra nella storia un modo cristiano di vivere la notorietà e la considerazione che si riceve, come una luce che splende nella notte perché gli uomini rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.

 

Mi immagino che Giacomo abbia preteso il primo posto: “Sono io il più grande, perché sono il più ardente, figlio del tuono mi chiamano, io devo sedere alla destra del Signore nel suo regno, io il più audace”. E come è avvenuto che quest’uomo ambizioso e aspirante a posizioni di privilegio sia stato il primo a morire martire in Gerusalemme? Ha teso l’orecchio alla sapienza e alla prudenza. E così entrata nella storia un modo di cristiano di vivere il coraggio e l’ardore, come una fortezza che non calcola il prezzo, ma solo è fedele nella testimonianza.

 

Ciascuno di noi può scrivere la sua storia di conversione dalla meschinità alla docilità: uno solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti (Ef 4,6), la storia di quella docilità interiore, quotidiana, tenace, che plasma la vita, cambia il cuore, configura uno stile, genera un tratto. Forse nessuno può veramente raccontarla, ma anche questa è la storia del monastero.